Ci sono momenti in cui la vita si spezza. La perdita di una persona amata, la fine di una relazione, una malattia improvvisa, un crollo interiore. In quei momenti, il linguaggio sembra svuotarsi. I consigli non aiutano. Il tempo non basta. E allora si parte.
Si parte a piedi. Per chilometri, giorni, settimane. Senza sapere esattamente cosa si sta cercando. Ma con una certezza: restare fermi fa più male che camminare.
Negli ultimi anni, sempre più persone scelgono il pellegrinaggio come forma di elaborazione del lutto. E non si tratta di fuga. Al contrario: è un confronto pieno e radicale con l’assenza, la trasformazione, la memoria. È un rito laico e potente, dove camminare diventa guarire.
Il pellegrinaggio come risposta silenziosa
In un mondo dove il lutto è spesso vissuto in fretta, relegato a un paio di giorni di congedo e a una manciata di frasi di circostanza, il pellegrinaggio offre uno spazio diverso. Lento. Fisico. Intimo.
Camminare per ore ogni giorno crea una routine che non anestetizza il dolore, ma lo accoglie. Il passo costante diventa respiro. Il sudore diventa elaborazione. Le lacrime, quando arrivano, cadono sulla polvere del sentiero. E nessuno le guarda.
Molti pellegrini moderni partono per motivi profondamente personali, non necessariamente legati a una fede. Lo fanno per “metabolizzare una perdita”, per “ritrovare un centro”, per “dire addio a qualcuno che non c’è più”. E spesso, non hanno mai fatto nulla di simile prima.
Il pellegrinaggio, in questo senso, è uno spazio rituale aperto, in cui ognuno può dare il proprio significato al cammino.
Il lutto e il corpo in movimento
La psicologia del trauma ha ormai riconosciuto una verità semplice ma radicale: il corpo è parte integrante del processo di elaborazione del dolore. Quando si subisce una perdita, il sistema nervoso entra in uno stato alterato: ansia, insonnia, disconnessione. Le emozioni si bloccano. E spesso, anche il corpo si blocca.
- Camminare ogni giorno, invece, riattiva il sistema nervoso in modo naturale:
- Riduce il cortisolo (ormone dello stress)
- Stimola endorfine e serotonina (ormoni del benessere)
- Aiuta a regolare il sonno
- Ristabilisce una routine gentile
In pratica, il corpo cammina prima che la mente lo segua. Ed è così che inizia la vera trasformazione.
Dove iniziano i pellegrinaggi del dolore?
Non esiste un solo cammino. Ma esistono mete che sembrano accogliere meglio chi parte per lutto.
- Cammino di Santiago (Spagna)
È il più famoso e frequentato. Molti raccontano di aver iniziato “senza sapere il perché”, e di aver scoperto, lungo la strada, che stavano dando forma a un addio. Le tappe, le albe, gli incontri casuali diventano simboli. Il cammino diventa narrazione del dolore.
- Via Francigena (Italia)
Meno affollata, più silenziosa. Percorre paesaggi agresti, piccoli borghi, spazi dove il vuoto non fa paura, ma accoglie. Ideale per chi cerca una solitudine gentile.
- Kumano Kodo (Giappone)
Un pellegrinaggio antico, nella natura spirituale del Giappone. Foreste, pioggia, templi. Il lutto qui dialoga con il sacro senza parole, solo con il ritmo degli alberi e il suono del vento.
Testimonianze: voci dalla strada
Elena, 38 anni – Cammino di Santiago, dopo la morte della madre: “Camminare ogni giorno era l’unica cosa che riuscivo a fare. Non avevo energie per altro. Ma dopo la prima settimana, mi sono accorta che il dolore era ancora lì, ma respirava con me. Non mi schiacciava più.”
Roberto, 61 anni – Via degli Dei, dopo un divorzio traumatico: “Volevo sparire. Ma camminando ho scoperto che non dovevo più fuggire. Dovevo solo muovermi, fisicamente, emotivamente. È stato un rito di passaggio. Un funerale silenzioso per quello che avevo perso. E un battesimo per chi stavo diventando.”
Sara, 44 anni – Kumano Kodo, dopo un aborto: “Nessuno mi parlava del dolore che si prova per una perdita invisibile. Il cammino era il mio modo per dare un corpo a quel dolore. A ogni passo, sentivo di non essere sola.”
Il ruolo della ritualità
Il lutto ha bisogno di rituali. E il pellegrinaggio è, in fondo, un rito naturale. Si parte. Si attraversa. Si arriva. Il corpo lo capisce. La mente lo segue. L’inizio è carico di aspettative e paura. Il centro è pieno di fatica e intuizioni. La fine è ambigua: non tutto è risolto, ma qualcosa si è spostato.
Molti pellegrini lasciano un oggetto simbolico lungo la via: una pietra, una foto, un biglietto. È un gesto piccolo, ma potente. È un addio visibile, tangibile, necessario.
Camminare da soli o in gruppo?
Entrambe le modalità hanno senso. Ma chi affronta un lutto spesso preferisce iniziare da solo. Il silenzio diventa uno spazio protetto, dove non dover spiegare nulla.
Altri trovano forza nel condividere, anche solo per tratti brevi, il proprio dolore con altri viandanti. Il sentiero offre una comunità provvisoria, empatica, senza obblighi. E questo può essere profondamente terapeutico.
Cosa succede dopo il cammino?
Il ritorno è la parte più difficile. Perché la vita è ancora lì, con le sue incombenze e le sue assenze. Ma qualcosa è cambiato. Chi torna da un pellegrinaggio spesso ha:
- più chiarezza sul proprio dolore
- maggiore capacità di accettazione
- una narrazione nuova della perdita
- una maggiore autonomia emotiva
- più connessione con il proprio corpo
Non si torna “guariti”. Ma si torna capaci di continuare a vivere, e questo è già molto.
Peregrinazione e psicoterapia: due strade che si incontrano
Sempre più psicologi consigliano il pellegrinaggio come strumento di supporto al lutto. Non come sostituzione, ma come integrazione. Esistono anche professionisti che guidano pellegrinaggi terapeutici, unendo momenti di cammino a spazi di riflessione, ascolto e scrittura.
Un lutto visto in cammino diventa racconto
Alla fine, ciò che molti scoprono è che camminando si costruisce un senso. Il dolore non svanisce, ma si trasforma. Diventa storia. Diventa possibilità. Diventa parte di noi.
Il pellegrinaggio non offre risposte semplici. Ma offre una cornice, un tempo, uno spazio in cui sentirsi legittimati a soffrire, a cercare, a cambiare. E in un’epoca che ci vuole sempre efficienti, questa è forse la forma più pura di libertà.
La strada come e cura
Camminare per elaborare un lutto non è una moda. È una necessità antica. È il modo che ha il corpo di dire alla mente: possiamo ancora andare avanti. Ogni passo non cancella il dolore. Ma lo rende più respirabile. Meno rigido. Più nostro.
La strada non offre scorciatoie. Ma restituisce qualcosa che avevamo perso: la possibilità di trasformare la sofferenza in significato. E allora sì, in certi momenti, camminare è la forma più umana di sopravvivenza.