Nella valle del Paraíba, nel sud-est del Brasile, si trova la città di Aparecida, sede di uno dei più grandi luoghi di pellegrinaggio mariano al mondo. Ogni anno milioni di viaggiatori percorrono a piedi, in bicicletta o in auto centinaia di chilometri per raggiungere la Basilica di Nostra Signora di Aparecida.
Mentre la città moderna risuona di canti, commercio e devozione, i legami storici che legano le origini di Aparecida sono molto più complessi. Tra questi, un ruolo centrale è svolto dagli schiavi africani e dai loro discendenti, che hanno contribuito a plasmare sia la storia della Vergine di Aparecida sia la più ampia narrazione dell’identità brasiliana.
Le origini nel fiume Paraíba: mito e storia

La leggenda fondante di Aparecida risale al 1717, quando tre pescatori, Domingo Garcia, Filipe Pedroso e João Alves, tirarono fuori dal fiume Paraíba una statua di argilla scura raffigurante la Vergine Maria. I pezzi, prima il corpo e poi la testa, sarebbero stati trovati proprio prima che un abbondante pescato riempisse le loro reti precedentemente vuote.
L’evento ebbe luogo vicino alla città di Guaratinguetá, nella capitaneria di San Paolo, una regione allora centrale sia per l’espansione agricola che per l’economia transatlantica degli schiavi.
Sebbene il racconto sia stato a lungo considerato miracoloso, un’analisi storica rivela il suo intreccio con le strutture coloniali. La statua, alta circa 40 cm e realizzata in stile barocco, fu probabilmente realizzata a San Paolo o nel Minas Gerais alla fine del XVII secolo. Assomigliava alle immagini mariane iberiche comuni all’epoca, in particolare quelle venerate dalle popolazioni schiavizzate e indigene.
Un elemento cruciale è che la carnagione della statua, scurita nel tempo dalla fuliggine delle candele e dell’incenso, fu accolta con favore dai devoti afro-brasiliani, molti dei quali vivevano in schiavitù. Nel corso del secolo successivo, l’immagine acquisì il titolo di Nossa Senhora Aparecida (Nostra Signora Apparsa) e la devozione si diffuse in modo organico attraverso una matrice di tradizione orale, santuari domestici e piccole cappelle.
Schiavitù, sincretismo e resistenza
Nel XVIII secolo, il Brasile era diventato la principale destinazione degli schiavi africani nel mondo. Lo stato di San Paolo, compresa la valle del Paraíba, fungeva da corridoio per il trasporto degli schiavi verso le piantagioni di caffè e le miniere d’oro. In questo contesto oppressivo, il cattolicesimo fu imposto come parte del dominio coloniale, ma spesso si fuse con le strutture spirituali africane in forme sottili di resistenza e conservazione culturale.
Gli schiavi afro-brasiliani, pur essendo proibiti di praticare le loro religioni ancestrali, trovarono nella figura di Aparecida un simbolo che poteva accogliere significati nascosti. La devozione alla “Vergine Nera” consentiva espressioni codificate di identità, solidarietà e speranza. Sebbene la liturgia formale fosse controllata dal clero portoghese, la devozione popolare, comprese le processioni e i canti, era in gran parte modellata dalle comunità nere schiave e libere.
Il santuario di Aparecida divenne rapidamente un luogo di convergenza. Gli schiavi spesso compivano pellegrinaggi segreti o incorporavano la figura in pratiche sincretiche legate a orixás come Oxum o Iemanjá, anche se la Chiesa rifiutava ufficialmente tali associazioni. In questo contesto, Aparecida fungeva sia da surrogato degli antenati spirituali che da faro di resistenza.
Istituzionalizzazione e adozione nazionale
La crescente popolarità dell’immagine portò alla sua istituzionalizzazione nel XIX secolo. Nel 1888, il Brasile fu l’ultimo paese del mondo occidentale ad abolire la schiavitù. Solo un anno prima, l’imperatore Pedro II aveva dichiarato ufficialmente Nossa Senhora Aparecida patrona del Brasile. La convergenza tra l’abolizione e la devozione mariana nazionale non fu casuale. L’immagine, da tempo popolare tra gli schiavi e gli emarginati, fu riassorbita in una narrativa di unità sancita dallo Stato.
Nel 1904 la statua fu incoronata con l’approvazione papale. Nel 1929 Papa Pio XI dichiarò Aparecida patrona principale del Brasile. La città stessa, ribattezzata da “Aparecida do Norte” a semplicemente “Aparecida”, si sviluppò rapidamente come centro di pellegrinaggio. La cappella originale fu ampliata, seguita dalla costruzione dell’enorme Basilica del Santuario Nazionale nel 1955. Completata negli anni ’80, la basilica è oggi una delle chiese più grandi al mondo, in grado di ospitare 45.000 persone.

Tuttavia, l’integrazione di Aparecida nel progetto nazionale brasiliano ha comportato alcune cancellazioni. Sebbene i tratti neri della Vergine siano stati certamente mantenuti, le radici popolari africane della devozione sono state spesso minimizzate. La narrazione ufficiale ha enfatizzato l’unità, la pietà e l’intervento miracoloso, tralasciando in qualche modo le dimensioni razziali e socio-politiche insite nell’ascesa di Aparecida.
Rivisitazioni contemporanee
Negli ultimi decenni, studiosi e attivisti afro-brasiliani hanno lavorato per ridefinire la storia di Aparecida. Infatti, la Vergine Nera è sempre più riconosciuta come una figura di resistenza. I pellegrinaggi annuali di gruppi afro-brasiliani, tra cui compagnie di maracatu e ballerini di congada, riaffermano la memoria culturale africana all’interno degli spazi ufficiali del santuario.
Il 300° anniversario della “comparsa” della statua nel 2017 è diventato un punto focale per tali reinterpretazioni. Gli eventi hanno messo in evidenza sia il contributo degli afro-brasiliani sia la necessità di affrontare le continue disuguaglianze razziali in Brasile. La Chiesa stessa, sebbene lenta nell’impegnarsi in questo dibattito, ha recentemente sostenuto rappresentazioni più inclusive, tra cui mostre e liturgie che riconoscono l’eredità della schiavitù.
Allo stesso tempo, Aparecida è stata assorbita da una spiritualità orientata al consumo. Il santuario ospita una rete televisiva, complessi alberghieri e una vasta zona commerciale. Alcuni critici sostengono che questa commercializzazione confonda il confine tra pellegrinaggio e turismo, diluendo la profondità storica del luogo. Tuttavia, molti pellegrini descrivono il loro viaggio in termini di resistenza e solidarietà, facendo eco alle narrazioni più antiche di difficoltà e speranza.
Memoria e movimento
Oggi, camminare fino ad Aparecida, spesso a più di 100 chilometri da San Paolo o da altre città, rimane un’esperienza trasformativa per molti. I pellegrini viaggiano in gruppi, portando striscioni, dormendo sul ciglio della strada e ripercorrendo i sentieri che rispecchiano i percorsi storici degli schiavi, dei contadini e dei migranti. Il paesaggio è segnato da cappelle, murales e stazioni della Via Crucis, che formano una cartografia in evoluzione della fede e della memoria.
La storia di Aparecida non è un racconto singolare di una scoperta miracolosa. È un palinsesto: un luogo in cui convergono il mito imperiale, la lotta razziale e l’identità nazionale. Il suo significato non risiede solo nella statua o nella basilica, ma nelle esperienze vissute da coloro che hanno compiuto il viaggio, in particolare coloro che hanno camminato in catene e hanno comunque trovato il modo di credere, adattarsi e resistere.