Nel cuore della Penisola Arabica, dove i deserti si estendono come mari dorati e le tradizioni ancestrali continuano a pulsare nella vita quotidiana, esiste un piatto che è molto più di una semplice ricetta. Si chiama kabsa e, sebbene a prima vista possa sembrare soltanto riso con carne, in realtà racchiude secoli di storia, ospitalità e cultura. In Arabia Saudita e in altri Paesi del Golfo Persico, la kabsa non si limita a essere consumata: viene condivisa, celebrata e onorata.
Origini dal deserto
La kabsa è nata in un contesto in cui la vita doveva essere pratica e le risorse sfruttate al meglio. Tra le tribù beduine del deserto arabico, cucinare significava mettere insieme ciò che si aveva a disposizione — carne di agnello o pollo, riso e alcune spezie preziose — e cuocere tutto in un unico recipiente. Così è nato questo piatto generoso, cotto sul fuoco con ingredienti disposti strettamente per fonderne i sapori e rendere omaggio a ciò che si possedeva.
Alcune versioni ne attribuiscono l’origine specifica allo Yemen, dove le tradizioni culinarie a base di riso e carne speziata sono particolarmente antiche. Con il tempo, le rotte commerciali che collegavano il Golfo al mondo persiano, indiano e mediterraneo portarono nuove spezie e tecniche, arricchendo la kabsa. Ogni regione ha adattato il piatto senza tradirne l’essenza: riso a chicco lungo, carni succulente e il profumo avvolgente di cardamomo, cannella, chiodi di garofano e limone nero essiccato.
Il nome stesso, kabsa, deriva dal verbo arabo kabs, che significa “pressare”, in riferimento al metodo di cottura in cui gli ingredienti vengono compressi per fondersi.
Curiosamente, alcune leggende — più poetiche che storiche — suggeriscono che la kabsa potrebbe avere radici nei piatti di riso andalusi portati nel Golfo dai mercanti medievali. Un’ispirazione incrociata con la paella? Forse. Quel che è certo è che la kabsa è fiorita nel suolo arabo come espressione culinaria autentica.
Un banchetto da condividere

Al di là degli ingredienti, la kabsa è un rito sociale. Tradizionalmente viene servita su un grande vassoio rotondo posto al centro della tovaglia, sul quale si stende il riso, sormontato da pezzi di carne e decorato con frutta secca, cipolla fritta o erbe fresche.
I commensali si siedono in cerchio sul pavimento e mangiano direttamente con la mano destra, attingendo dalla porzione di fronte a loro. Questo modo di condividere non è solo pratico: simboleggia uguaglianza, unità e generosità.
Nella vita quotidiana di Paesi come l’Arabia Saudita, la kabsa può essere il piatto principale di un pranzo in famiglia. Ma il suo vero protagonismo emerge in occasioni speciali: matrimoni, commemorazioni, festività religiose. In questi contesti, servire la kabsa equivale ad aprire le braccia all’altro, a mostrare che c’è abbondanza per tutti, a riaffermare il senso di appartenenza a una comunità.
Una sola anima, molte varianti
Sebbene il concetto base della kabsa sia comune in tutto il Golfo, ogni Paese — e spesso ogni città — ha il proprio modo di prepararla. In Qatar, Bahrein e Kuwait è chiamata machbūs o majboos; negli Emirati, makbūs. Il colore del riso varia dal giallo (per via dello zafferano o della curcuma) al rosso o marrone (per l’uso di pomodoro o spezie scure), e l’intensità delle spezie cambia a seconda del gusto locale.
Quanto alle proteine, il pollo e l’agnello sono i più comuni, ma si possono usare anche capra o persino cammello. Anche i contorni variano: dall’uvetta e le mandorle tostate alle insalate di yogurt e cetriolo, o la salsa piccante dakkus. Questa ricchezza di versioni rende la kabsa al tempo stesso tradizionale e adattabile, un simbolo di unità che accoglie le differenze.
Un simbolo dalle risonanze spirituali

Anche se la kabsa non è un alimento rituale in senso stretto, la sua presenza durante i momenti religiosi le ha conferito un valore simbolico. Durante il mese di Ramadan, molte famiglie la preparano per l’iftar, il pasto serale che rompe il digiuno quotidiano. Appare anche nelle grandi celebrazioni dell’Eid, quando condividere con parenti e vicini diventa un gesto spirituale.
Nella festa di Eid al-Adha, ad esempio, è comune cucinare carne di agnello sacrificata secondo il rito islamico, e uno dei modi preferiti per prepararla è proprio la kabsa. Il piatto si trasforma allora in un’espressione di solidarietà e carità, poiché parte del cibo viene distribuita ai bisognosi.
Il fatto di mangiare insieme dallo stesso recipiente, in un gesto di umiltà e vicinanza, rafforza gli ideali comunitari e spirituali che attraversano la cultura arabo-islamica.
Un piatto, molte connessioni
La kabsa, tuttavia, non è sola nel mondo. È evidente la sua parentela con altri piatti a base di riso speziato. La paella spagnola, per esempio, presenta similitudini nella tecnica e nella struttura: riso cucinato con carne o frutti di mare, verdure e spezie, tutto in un’unica padella. Sebbene i sapori siano diversi, lo spirito di festa e condivisione è presente in entrambi.
Il biryani del subcontinente indiano, invece, è ancora più simile per gusto e composizione: riso basmati, complessa miscela di spezie, carne cotta. La principale differenza sta nel metodo di cottura: mentre il biryani viene spesso stratificato e cotto al vapore in un recipiente sigillato (dum), la kabsa si cuoce tutta insieme, ottenendo un sapore più omogeneo e affumicato.
E dietro entrambi c’è una tradizione millenaria che percorre la Via della Seta: i pilaf e pulao dell’Asia Centrale, della Persia e del Medio Oriente. In questa genealogia di piatti che combinano riso, carne e spezie, la kabsa occupa un posto d’onore, come espressione araba peninsulare di un’eredità condivisa.
Il viaggio globale della kabsa
Oggi la kabsa ha varcato i confini. Grazie alla diaspora araba e alla curiosità gastronomica mondiale, si può trovare in ristoranti di Londra, New York o Istanbul. Il suo sapore esotico ma accessibile, l’aspetto colorato e la sua profonda storia l’hanno resa ambasciatrice della cucina araba.
Per chi si avvicina per la prima volta a questo piatto, mangiare kabsa è qualcosa di più che assaporare un gusto nuovo: è partecipare, anche solo per un attimo, a una tavola dove il tempo si ferma, i legami si rafforzano e il cibo diventa veicolo di cultura.
In definitiva, la kabsa non si misura solo negli ingredienti, ma nel gesto di condividerla. Rappresenta un modo di stare insieme, di onorare la tradizione senza rinunciare all’innovazione, di nutrire il corpo e, in qualche modo, anche l’anima. In un mondo sempre più individualista, questo piatto comunitario ricorda che, a volte, mangiare insieme può essere un atto di profonda umanità.