Nel mondo mediterraneo, il vino è molto più che nutrimento: è un gesto di accoglienza, un ricordo condiviso, un segno di ospitalità intrecciato alla vita quotidiana e al rituale. Dalle alture del nord della Giordania, dove la viticoltura resiste fin dall’antichità, alle volte della cattedrale di Valencia, dove è custodito il Santo Calice, la continuità tra vino e recipiente tesse un filo tangibile attraverso i secoli.
Questa è la storia di come i paesaggi e gli oggetti conservano la memoria rituale – e di come l’ospitalità sopravvive in forme materiali nel corso del tempo.
Gli antichi vigneti della Giordania
Anche se oggi la Giordania non viene comunemente associata al vino, il suo legame con la viticoltura è antico e ben documentato. Nei dintorni di Petra, capitale dell’antico regno nabateo, gli archeologi hanno scoperto ampie reti di torchi per il vino scavati nella roccia, risalenti ai primi secoli a.C. e d.C. Queste installazioni indicano una produzione su scala industriale, probabilmente inserita nelle più ampie reti commerciali del Levante.

Più a nord, a Umm Qais – l’antica Gadara – sono emerse prove archeologiche di impianti per la fermentazione e lo stoccaggio del vino. Situata lungo le strade romane, questa regione potrebbe essere stata una delle possibili fonti del vino usato nei pasti cerimoniali della Giudea romana. Alcuni studiosi hanno persino suggerito, con cautela, che il vino di quest’area possa essere stato presente alla Cena del Signore, anche se non esistono prove dirette a conferma di ciò.
Indipendentemente da queste ipotesi, la continuità storica della produzione vinicola in Giordania è chiara – e oggi sta vivendo una nuova rinascita.
La rinascita del vino in Giordania
A Mafraq, a nord di Amman, due cantine – Zumot e Haddad – hanno ridato vita a questa antica tradizione unendo competenza tecnica e sensibilità ecologica. I suoli basaltici della regione, modellati da antiche attività vulcaniche, offrono un eccellente drenaggio e una ricchezza minerale straordinaria. Le altitudini elevate e le notti fresche prolungano il ciclo vegetativo, producendo uve di grande complessità e resistenza.
I vini Saint George di Zumot e l’etichetta Jordan River di Haddad hanno ricevuto riconoscimenti internazionali in degustazioni alla cieca in Europa e in Asia. Non si tratta di semplici curiosità da esportazione, ma di autentiche espressioni del territorio – paesaggi imbottigliati che invitano a riscoprire il patrimonio vivente della Giordania.
Il vino nella storia rituale
Il vino è sempre stato presente nei pasti rituali del Mediterraneo antico. Nelle culture greco-romana, ebraica e nabatea, il vino simboleggiava comunità, celebrazione e alleanza.
La Cena del Signore, tradizionalmente collocata a Gerusalemme, viene spesso interpretata alla luce di queste tradizioni condivise. Al di là delle letture teologiche, l’atto stesso – una tavola imbandita con pane e vino – rifletteva le usanze di ospitalità del tempo. In quei contesti, il vino non era raro né intrinsecamente sacro, ma parte integrante della vita collettiva.
Nella tradizione ebraica, la coppa del vino usata durante il pasto di Pasqua (Pesach) ha un profondo significato simbolico. Durante il Seder, si bevono quattro coppe, ciascuna delle quali rappresenta una promessa divina di redenzione fatta al popolo di Israele nel libro dell’Esodo. In quest’ottica, la coppa condivisa da Gesù e dai suoi discepoli può essere vista come un momento carico di significato simbolico – radicato nella speranza, nella liberazione e nell’alleanza.
Anche se non sappiamo con certezza se le antiche regioni vinicole della Giordania siano state direttamente collegate a questi eventi, esse ci ricordano che i paesaggi di quei rituali si estendevano su territori che oggi, ancora una volta, sono fertili di viti.

Il Calice di Valencia
A migliaia di chilometri a occidente, nella città di Valencia, una coppa in pietra conosciuta come il Santo Calice è custodita dietro un vetro, nella cappella che porta il suo nome, all’interno della Cattedrale di Santa Maria. Venerato fin dal Medioevo come il vaso usato da Gesù nell’Ultima Cena, il suo percorso storico è complesso e avvolto nella tradizione.
La coppa, scolpita in calcedonio lucido, misura 7 cm in altezza e 9,5 cm in diametro, e si ritiene risalga al I secolo d.C., con probabile origine nel Mediterraneo orientale. Secondo la tradizione, il calice fu portato a Roma, nascosto durante le persecuzioni, e infine condotto in Spagna da San Lorenzo nel III secolo. Riappare nella penisola iberica cristiana secoli dopo, e rimane a Valencia dal XV secolo.
Le tradizioni aragonesi e valenzane identificano questa reliquia con il Santo Graal. Nel 1960, l’archeologo Antonio Beltrán ne confermò l’antichità, e nel 2019, la storica dell’arte Ana Mafé García, applicando metodi scientifici, classificò il manufatto come un Kos Kidush – una coppa ebraica di benedizione del periodo del Secondo Tempio, contemporaneo di Erode il Grande. La base e le maniglie, ornate d’oro, furono probabilmente aggiunte nel Medioevo, trasformando un oggetto umile in uno liturgico.
Anche se il percorso storico del calice resta in parte ipotetico, esso testimonia la continuità degli oggetti sacri – capaci di attraversare il tempo e lo spazio, adattarsi a nuovi significati e mantenersi vivi nella pratica rituale.
I recipienti come soglie
I paralleli tra i vigneti giordani e il calice di Valencia non si trovano nella dottrina, ma nel gesto. A Valencia, la coppa è un recipiente di memoria; in Giordania, il vino scorre di nuovo da suoli antichi. Entrambi riflettono l’ideale mediterraneo dell’ospitalità – incarnato in recipienti che nutrono sia il corpo che lo spirito.
Le torchiature di Petra, i vigneti basaltici di Mafraq e il calice di Valencia parlano del potere duraturo dei contenitori – non come reliquie statiche, ma come soglie: tra ospite e anfitrione, tra terra e tavola, tra memoria e esperienza presente.
In ogni calice condiviso, o nel silenzio di fronte a una coppa antica, incontriamo la tradizione mediterranea dell’accoglienza – un’offerta che continua a scorrere nel tempo.